Tra i motivi che hanno portato alla rovina il regime della DDR vi è quello di essere stato vittima dei propri pregiudizi, fra i quali l'odio verso il passato ebbe un ruolo di primo piano. Ben oltre l'era Ulbricht il regime fu impegnato nel costruire una propria legittimità e alla sua dirigenza fu chiaro troppo tardi che sarebbe stato meglio usurpare a proprio beneficio la Storia, come aveva fatto anche il precedente regime totalitario, anziché distruggere le sue testimonianze.
Simili considerazioni dominavano i discorsi nell'autunno del 1950, quando venne reso noto per la prima volta che il castello di Berlino sarebbe presto saltato in aria. A quel tempo in molti, spesso in gruppo, andarono in centro per gettare un ultimo sguardo alla grandiosa costruzione in rovina. Mi ricordo di una vecchia signora che, dopo la prima carica nella cosiddetta "ala della farmacia", si rivolse a un agente di polizia situato nei pressi della recinzione di sbarramento e gli gridò: «Qui c'è già abbastanza distruzione! Perché proprio il castello?».
Allora esperti di tutto il mondo, sia dell'Est che dell'Ovest, inviarono petizioni, proteste e memoriali. Affermavano che l'edificio rappresentava il centro urbano di Berlino e che, sebbene in rovina, esso reggeva il confronto con il San Pietro di Michelangelo, e una sua ricostruzione non avrebbe comportato costi esorbitanti. 32 milioni di marchi, secondo la perizia di uno studio di ingegneri richiesta dal SED [Partito di Unità Socialista di Germania, al governo nella DDR, n.d.T.]. Anche se l'immobile era bruciato, l'imponente opera muraria e i numerosi rilievi e sculture che l'adornavano avevano resistito al fuoco, e con esse quel piccolo cortile del castello rappresentante la più importante eredità storico-architettonica di Andreas Schlüter. Lo storico d'arte Richard Hamann della Humbold-Universität ricordò le costruzioni che erano resistite alle rivoluzioni, o che erano state restaurate, come il Louvre, il Cremlino e tutti i castelli degli Zar a Leningrado e nei dintorni, e rammentò anche la decisione appena presa del parlamento polacco di ricostruire quel castello reale di Varsavia che era stato distrutto fin nelle sue fondamenta dai tedeschi. Per una simile perdita non si sarebbe «mai trovata consolazione».
Ma tutto fu vano. Il castello dovette cadere poiché edificio della «dominazione degli Junker», simbolo di schiavitù e sfruttamento e simili espressioni da risentimento socialistico. Lo storico d'arte Gerhard Strauß rimase l'unico nel suo campo ad approvare l'abbattimento, innalzandolo a simbolo della disfatta delle potenze feudali e imperialistiche.
Oltre a ciò vi fu un secondo motivo per la distruzione. Il regime aveva bisogno di una grande piazza per le dimostrazioni, dove «possa trovare espressione la volontà di combattimento e ricostruzione del nostro popolo», come dichiarò Ulbricht al terzo congresso del SED. Aveva fatto calcolare che nello spazio lasciato libero si sarebbero potute adunare 330.000 persone, mentre con una serie di interventi edili nei dintorni 750.000 uomini avrebbero potuto marciare in file da settanta di fronte alla progettata tribuna. Tutte le controproposte dei rappresentanti della scienza, dell'Istituto per l'edilizia, dell'Accademia dell'Est e dell'Unione culturale furono inutili. In quattro fasi tra il 6. Settembre e il 30. Dicembre 1950 il castello venne fatto saltare in aria con tredici tonnellate di dinamite.
Nulla era più sbagliato dell'accusa di essere stato per secoli la «roccaforte» dell'oppressione. Nonostante le dimensioni imponenti il castello di Berlino non fu mai un edificio intimidatorio e nemmeno possedette intorno a sé, come i palazzi reali a lui paragonabili, un terrapieno di ampi parchi e vedute panoramiche. In tutta la sua solennità il castello mantenne sempre una certa intimità o in ogni caso una dimensione umana, riconducibile certamente anche all'opera di Schlüter, il quale diede ritmo alle forme enormi con delle irregolarità artistiche e, operando come scultore quale era, risolse la monumentalità in un dinamismo plastico, quasi dando l'impressione che impercettibilmente respirasse. Gli architetti che proseguirono l'edificazione del castello, da Eosander von Göthe fino a Stüler, che insieme a Friedrich Wilhelm IV progettò la cupola già ideata da Schinkel, hanno contribuito a renderlo un monumento della storia architettonica: non un palazzo sovrano sviluppato da un unico concetto, bensì un geniale collage storico, che contro tutti i cambiamenti delle rappresentazioni architettoniche evocò la continuità di un'opera frutto di quell'arte di governo di cui era espressione.
Per tutto questo il castello non si contrappose mai ai suoi dintorni, come altre costruzioni della sua specie, piuttosto esso fu sempre l'edificio rappresentativo della città e dello Stato. Probabilmente anche questa prossimità alla cittadinanza fu la spina nel fianco della nuova e gelosa sovranità della DDR, costituitasi da poco.
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